CALABRIA

venerdì 24 dicembre 2021

STORIE CRIMINALI : DA DELIANUOVA A HAMILTON.



Hamilton (Ontario)


Da Delianuova a Hamilton, Canada: la parabola della “mafia italiana”

La quarta città più popolosa del Canada è un laboratorio criminale: tra faide e affari la criminalità organizzata si fa sempre più “liquida” e dai contorni più sfumati

13 Ottobre 2021

dii Alessandro Boldini


ll viaggio in auto da Buffalo ad Hamilton dura poco più di un’ora. Si attraversano due Paesi e si passa per uno degli scenari naturalistici più famosi al mondo, le cascate del Niagara. Nel mezzo una differenza abissale, da tutti i punti di vista: ambientale, culturale, di tradizioni. Ma anche, e soprattutto, di milieu criminale. Lì lo chiamano l’«underworld», il mondo di sotto. La traduzione italiana più appropriata è «malavita». Perché la mafia in quell’area del Nordamerica è quanto di più liquido possa esistere. Il confine è talmente labile che perfino la storica divisione fra cosa nostra siciliana e la ’ndrangheta calabrese a volte viene meno, specie se di mezzo ci sono gli affari. Inquirenti e investigatori faticano infatti, a volte, a inquadrare il fenomeno nel giusto perimetro.

L’ultima relazione semestrale della Direzione investigativa antimafia (Dia), riferita al periodo luglio-dicembre 2020, ad esempio, nel descrivere la situazione canadese cita uno dei numerosi episodi della lunga epidemia di violenza che negli ultimi anni ha imperversato nella regione dell’Ontario. Si tratta dell’omicidio di Pasquale Musitano, detto «Fat Pat», rimasto vittima di un agguato appena sceso dal suo fuoristrada blindato nel parcheggio di un centro commerciale a Burlington, centro di oltre duecentomila abitanti sulla sponda Ovest del lago Ontario.

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La relazione della Dia

di Giacomo Pirrone

È stata pubblicata lo scorso 22 settembre la relazione del Ministero dell’Interno al Parlamento sulle attività della Direzione investigativa antimafia per il secondo semestre del 2020. Il periodo preso in esame è quindi quello immediatamente successivo al primo e più esteso lockdown per contrastare gli effetti della pandemia da Covid-19. Una fase caratterizzata da un contesto di crisi economica generalizzata, particolarmente grave soprattutto per il settore terziario, colpito da lunghe chiusure e riaperture a intermittenza.

In questo contesto, riporta la Dia, le varie organizzazioni criminali di stampo mafioso hanno confermato una tendenza alla sommersione che si osserva da anni: un ricorso sempre meno frequente alla violenza, sostituito da strategie più subdole che puntano all’infiltrazione nel tessuto socio-economico dei territori di appartenenza e alla creazione di un welfare parallelo a quello statale che approfitta delle situazioni di crisi economica. Inoltre, i gruppi criminali dimostrano una grande velocità e flessibilità nel cambiare le proprie strategie per adattarle alle nuove tendenze sociali e tecnologiche; lo dimostrano l’uso sempre più frequente di criptovalute per le proprie transazioni e la diversificazione dei propri affari per approfittare dei finanziamenti pubblici stanziati per l’emergenza.

La ‘ndrangheta calabrese, scrivono gli uomini della Dia, mostra una forte vocazione imprenditoriale, che si avvale dei fondi ricavati dal narcotraffico – in primis cocaina – e dell’aiuto di una cosiddetta “area grigia” di professionisti, imprenditori e amministratori corrotti che collaborano con le cosche senza farne parte attivamente. Gli affari delle ‘ndrine si spingono su tutto il territorio nazionale, in particolare in Emilia-Romagna, Liguria e Lombardia. Pur conservando una struttura unitaria e molto organizzata, la mafia calabrese sembra meno impermeabile che in passato con diversi casi di collaboratori di giustizia. In Sicilia, cosa nostra conserva il proprio ruolo preminente nella regione convivendo e talvolta collaborando con la Stidda, associazione di gruppi organizzati orizzontalmente presente soprattutto nell’area centro-orientale. Anche qui si cerca di infiltrarsi nei settori più coinvolti dai contributi pubblici, come quello delle energie rinnovabili. C’è inoltre un interesse crescente verso il gioco d’azzardo, usato come mezzo di riciclaggio.

Anche i clan della Camorra mostrano una spiccata attitudine all’imprenditorialità, con casi di coincidenza tra leadership criminale e management imprenditoriale. Questi gruppi sono molto eterogenei fra loro per strutture e modalità operative; questa eterogeneità porta a una forte flessibilità e capacità rigenerativa, ma causa anche rapporti instabili tra i clan che alternano periodi di conflittualità e alleanza in funzione degli interessi del momento. Anche la Puglia conferma tendenze già viste in precedenza: in particolare, la mafia pugliese è quella più incline a conflittualità interne. Ciò – chiude il rapporto della Dia – sarebbe causato dal perdurare delle condizioni detentive di molti leader storici e dal conseguente tentativo delle nuove leve di scalare le gerarchie. Particolarmente rilevante è il contesto foggiano, dove le consorterie mostrano una grande duttilità nei contesti economico-finanziari. Sul territorio nazionale sono inoltre presenti gruppi criminali etnici, eterogenei per origini e interessi. Se al centro-nord questi gruppi riescono a costruirsi una propria autonomia e talvolta un’egemonia in settori specifici, nelle regioni meridionali agiscono con l’assenso delle mafie locali, quando non direttamente in subordine.

 

 

Il 52enne, scrive la Dia, è «un soggetto ritenuto esponente di spicco di una famiglia di ’ndrangheta originaria di Delianuova e trapiantata in Canada». Eppure gli studi e le inchieste sembrano suggerire tutt’altro. Tanto che la dottoressa Anna Sergi, criminologa dell’Università dell’Essex, nel commentare il paragrafo dedicato all’omicidio di Fat Pat ha segnalato l’«errore nell’ultima relazione della Direzione Investigativa Antimafia», dove «si indica la famiglia (Musitano, ndr) come clan di ’ndrangheta. Questi errori confondono ancora di più il panorama confuso della mobilità mafiosa». Sergi fa infatti riferimento all’estrema mobilità dei clan della zona, in particolare della città di Hamilton, dove tutti confluiscono sotto il generico cappello della «mafia italiana».

 

Lo sbarco in «Canadà»

Un milieu criminale dove regna l’ibridismo, tanto che i confini tra ’ndrangheta e cosa nostra sembrano quasi fondersi fra loro. Ne è un esempio la storia del clan Musitano, che – insieme ad altre due famiglie calabresi, i Papalia e i Luppino-Violi – per decenni ha dominato su un’area della quarta città più popolosa di tutto l’Ontario. Per comandare a lungo, però, bisogna scendere a compromessi. Che in alcuni casi significa perfino mettere da parte le proprie «ingombranti» origini e schierarsi al fianco di chi di volta in volta ha il potere in mano. La presenza dei Musitano ad Hamilton è documentata fin dagli anni Trenta. Il capostipite del casato è Angelo Musitano, «la bestia di Delianuova», che nel 1938 fugge dalla provincia di Reggio Calabria alla volta di quel Paese lontano che i giornali dell’epoca chiamano ancora «Canadà».                                                                                                                               



 

L’evento scatenante è l’omicidio della sorella Rosa, commesso (a Delianuova)  un anno prima : Musitano, appena uscito dal carcere, scopre che la donna – da poco vedova – è rimasta incinta di un altro uomo. Una macchia per l’onore della famiglia che va ripulita con il sangue. Musitano uccide infatti la sorella e poi trascina il cadavere per le vie del paese fino alla casa dell’amante. Ancora in attesa di processo l’uomo fa perdere le proprie tracce e ripara ad Hamilton. Qui vive per quasi trent’anni sotto falso nome, Jim D’Augustino, e per sopravvivere si dedica ai mestieri più disparati: sarto, meccanico, imbianchino.

Nel 1940 Musitano viene condannato in contumacia a 30 anni di carcere e iniziano così le ricerche anche in campo internazionale. La svolta arriva soltanto nel 1963, quando anche l’Interpol si mette sulle sue tracce dopo aver ricevuto una segnalazione e una vecchia fotografia di trent’anni prima. Sarà proprio quello scatto in bianco e nero e dai contorni ingialliti a farlo finire in trappola. Il 3 marzo 1965, infatti, gli agenti che da mesi lo stavano pedinando riescono ad arrestarlo. Al momento dell’arresto Musitano non nega le accuse, ma stenta a riconoscersi nella foto che gli investigatori gli mostrano. Per lui arriva quindi il momento del ritorno in patria con l’estradizione.


La dinastia criminale

Ormai, però, la stirpe criminale ha già messo radici. Nei ventisette anni di vita trascorsi ad Hamilton, Musitano riesce a metter su famiglia e dà una mano a crescere i figli del fratello. A portare avanti la dinastia ci pensano infatti i nipoti, Anthony e Dominic Musitano. È grazie a loro che a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta il nome dei Musitano si fa largo nel panorama criminale canadese assumendo un ruolo di primo piano, sapendo al contempo esercitare quel «fascino» mafioso che ha sempre tanto appeal sui giovani. Tony è uno di quei personaggi che fa parlare di sé con estrema facilità: a colpire è soprattutto il suo senso dello humor nero come la pece, capace di spezzare le smorfie del viso a metà tra un sorriso e un velo di timore.

 

 

La dinastia dei Musitano



 

Nel gennaio del 1983 viene condannato a 15 anni di carcere per una serie di attentati esplosivi contro alcune attività commerciali per la gestione del racket ad Hamilton, che in quel periodo viene ribattezzata “Bomb City”.

Mentre è in carcere pianifica – insieme al fratello Dominic e altri – l’omicidio di Domenic Racco, uno dei boss più in vista del Siderno Group, avamposto ’ndranghetista attivo nella GTA, la Great Toronto Area. In ballo ci sono gli affari con il traffico di droga e un debito da circa mezzo milione non onorato da Racco. Tanto basta per attirarlo in una trappola e farlo fuori, senza paura di mettersi contro altri compari calabresi.

Con Tony dietro le sbarre, il ruolo di comando spetta a Dominic, che indirizza il business di famiglia verso il gioco d’azzardo illegale. Nel 1992, un rapporto del dipartimento di polizia di Hamilton-Wentworth stima che i guadagni dei Musitano si aggirino attorno ai 14 milioni di dollari all’anno. Dominic Musitano fa del carisma la sua arma vincente e contribuisce a costruire un immaginario. Così le cronache raccontano delle oltre mille persone che il giorno del suo funerale popolavano le strade di Hamilton per seguire la veglia funebre.

Dominic muore per un arresto cardiaco all’età di 56 anni, mentre Tony morirà molti anni più tardi, nell’aprile 2019, dopo aver trascorso l’ultimo periodo della sua vita da boss in pensione.


Il Siderno Group///

Per Siderno Group, o Crimine di Siderno, s’intende il gruppo di famiglie calabresi affiliate alla ’ndrangheta presente nella GTA, la Great Toronto Area, in Canada. Insieme alle camere di controllo della Lombardia, della Liguria e ai tre mandamenti calabresi (Ionica, Tirrenica e Città), rappresenta la sovrastruttura che coordina le attività delle ’ndrine canadesi e risponde direttamente al Crimine reggino. Il nome del Siderno Group si deve a un’intuizione investigativa degli inquirenti italiani, i quali – nell’omonima operazione del 1992 – hanno ricostruito le attività di una serie di famiglie trapiantate da decenni in Canada ma originarie di Siderno e di città della Locride come Gioiosa Ionica e Marina di Gioiosa Ionica.

I clan attivi nella regione canadese dell’Ontario, secondo gli esperti, non hanno di fatto mai reciso i legami con la «madre patria» calabrese e, come rivelano le inchieste giudiziarie, sono impegnati principalmente in attività illecite come il narcotraffico e il riciclaggio di denaro sporco. La ’ndrina di riferimento all’interno del Siderno Group è quella dei Commisso, detti «quagghia», che già negli anni ’80 gestivano alcune fra le principali rotte del traffico di eroina prima, e di cocaina poi, sull’asse New York-Toronto-Calabria.

 

Le redini passano così in mano ai figli di Dominic, Angelo «Ang» e Pasquale, detto «Fat Pat». Gli ordini partono da Pat, il fratello maggiore, colui che meglio incarna l’immagine del gangster lasciata dal padre. A dimostrazione della liquidità mafiosa della famiglia Musitano troviamo due episodi specifici. Il primo, nel 1997, l’omicidio di uno dei boss più importanti dell’epoca: Johnny «Pops» Papalia, fatto fuori insieme al suo braccio destro Carmine Barillaro proprio su ordine dei Musitano. A dispetto dalle sue origini calabresi (di Delianuova) Papalia – dopo la collaborazione con il contrabbandiere platiese Rocco Perri – si afferma a partire dagli anni Cinquanta come esponente di spicco del braccio canadese della famiglia di Buffalo, guidata da Stefano Maggadino.

I Musitano hanno un debito con Papalia di 250 mila dollari per un giro di scommesse in cui sono coinvolti. E decidono che piuttosto che estinguere il debito è meglio risolvere il problema alla radice, eliminando Pops e preparandosi ad affrontare una faida da cui difficilmente potranno uscire vincitori. Ma i Musitano ci riescono, grazie a uno strano gioco di alleanze che li porta a cercare e trovare la sponda delle principali famiglie di cosa nostra a Montréal, i Cuntrera Caruana e i potentissimi Rizzuto. L’appiattimento dei calabresi sui siciliani è ormai definitivo. Nel 2000, incastrati dal killer da loro stessi ingaggiato, i fratelli Musitano patteggiano 10 anni per l’omicidio Barillaro e in cambio vengono fatte cadere le accuse per altri due casi, compreso quello di Papalia.

 

La scia di sangue

L’omicidio di Johnny Papalia segna però uno spartiacque nella storia criminale di Hamilton, della quale non mancano strascichi ancora oggi. Come raccontano alcune fonti qualificate, capita infatti che durante gli intervalli a scuola tra i ragazzini emerga quella vecchia storiaccia della guerra fra i Musitano e i Papalia e, anche se le parentele con i protagonisti degli eventi siano distanti anni luce, le discussioni finiscano in rissa. Oppure succede che, per «sbeffeggiare» i rivali, su alcuni canali YouTube vengano caricati dei gameplay di un popolare videogioco, Grand Theft Auto, in cui si simulano spedizioni punitive e agguati mortali ai danni di esponenti della famiglia Musitano.

Il messaggio è inequivocabile: «Questa è la fine che meritate». Negli ambienti giudiziari canadesi si vocifera anche che lo spettro della vendetta per l’omicidio Papalia aleggi sui più recenti fatti di cronaca che hanno riguardato (e di fatto sterminato) la famiglia Musitano. Il 2 maggio 2017 viene ammazzato sul vialetto di casa Ang Musitano, 39 anni. Due componenti del commando di fuoco – Michael Graham Cudmore e Daniele Ranieri – sono stati ritrovati morti nel deserto del Messico. E le autorità sospettano che sempre in Messico trascorra la sua latitanza l’ultimo dei sospettati, Daniel Mario Tomassetti, a cui dà la caccia anche l’Interpol.

Poco più di tre anni dopo, il 10 luglio 2020, come ricorda la Dia, tocca invece a Fat Pat. Scrupoloso in ogni azione, viaggia sempre a bordo del suo suv blindato. Non è mai solo, ma i killer riescono a freddarlo in uno dei rarissimi momenti in cui abbassa la guardia. L’omicidio di Pasquale Musitano ha un’eco che arriva perfino oltreoceano, soprattutto per la caratura del personaggio. «Era Tony Soprano prima ancora che Tony Soprano fosse in televisione», dirà un ex sergente della polizia di Hamilton commentando la morte del gangster-boss amante dei cappotti di pelle e degli occhiali scuri. Per il suo omicidio i sospettati sono cinque, tutti apparentemente lontani dall’«underworld».



Pasquale Musitano


Quasi certamente, però, l’inchiesta della polizia canadese non porterà mai alla scoperta dei mandanti né del movente: a gestirla è infatti la squadra omicidi, che punta ad assicurare quanto prima i killer alla giustizia, mentre gli investigatori specializzati in criminalità organizzata premono affinché si allarghi il raggio d’azione proprio come avviene nelle più complesse indagini italiane. Ma il caso non è di loro competenza.

Tra le voci che girano c’è quella di un coinvolgimento di una famiglia emergente, gli Iavarone, forse stanchi della vita da «portaborse» dei Musitano e capaci di sfruttare a proprio vantaggio il momento di massimo declino degli storici alleati. Una sorta di gioco al massacro tra clan fragili dove chi la spunta ne esce moribondo. Negli ambienti della malavita e tra i ben informati si dice che prima di vestire il doppiopetto per buttarsi nel business, gli Iavarone stiano aspettando l’uscita dal carcere di Domenico «Dom» Violi, reggente dell’ultimo dei tre storici gruppi rimasto ad Hamilton, il clan calabrese Luppino-Violi, nonché sospettato di essere il primo canadese con la dote di «underboss» per conto di una famiglia di cosa nostra americana, i Todaro di Buffalo. Ma questa è tutta un’altra storia.


da IRPIMEDIA del 13 ottobre 2021

lunedì 13 dicembre 2021

FESTA DELLA MATRICOLA A DELIANUOVA.


 La festa delle matricole: una tradizione goliardica



(foto tratta dal web)

 

Quando si parla di Goliardia, si sta parlando di tradizione, cultura, usanze che vengono tramandate nei secoli da adepti ad adepti. Tra questa infinita lista di usanze, ve n’è una che coinvolge tutta la comunità degli universitari e non. Risalente al XIX secolo, la “festa delle matricole” si è nel tempo consolidata nella tradizione goliardica.



“Vulgaris matricola minus quam merda”, cioè “la matricola è meno che un pezzettino di…”.

Questo è il simpatico modo in cui vengono apostrofati tutti i nuovi iniziati alla Goliardia.

Le matricole vengono prese in giro dalla notte dei tempi e probabilmente questa usanza deriva proprio dall’antica tradizione della Goliardia.

Ma senza nuovi iniziati la comunità di studenti universitari scomparirebbe, per questo delle vittime sacrificali sono quanto mai necessarie.

In loro “onore”, è dunque stata istituita la “Festa delle Matricole”. 

Anticamente chiamato “Liberatio Scholarhum”, prevede la liberazione delle matricole dalla costrizione delle lezioni e delle aule durante l’arco di una giornata.

Questa festa coinvolge tutto il mondo universitario, ma viene organizzata principalmente dai più anziani goliardi, ovvero gli studenti con più anni alle spalle.



La festa delle matricole si chiude con l’intonazione del tradizionale “Gaudeamus Igitur”, ovvero l’inno internazionale della Goliardia. Una conclusione fatta di rumori e allegria perché, come recita lo stesso inno, 

“Spassiamocela dunque, finché siamo giovani. Dopo l’allegra gioventù, dopo la scomoda vecchiaia, ci riceverà la terra!”.

Anche a Delianuova la festa della matricola ebbe luogo più volte, coinvolgendo un numero consistente di universitari. Riportiamo sotto l'invito alla serata danzante organizzata, in occasione di una Festa della matricola deliese, presso il locale " La Baita" di Gambarie d'Aspromonte.







mercoledì 17 novembre 2021

DELIANUOVA E BOVA


Aspromonte e l'antica Città di Delia

 

Dagli studi di alcuni storici locali nell’odierna vallata del San Pasquale (fraz. Di Bova Marina) si trovava la mitica città di Delia, distrutta forse dai Saraceni nel IX secolo.

Questa suggestiva ipotesi potrebbe essere confermata da ulteriori indagini archeologiche, infatti, dagli scavi già eseguiti sono venuti alla luce reperti e resti di ville romane di notevole valore storico.

Non si hanno molte notizie di questa antica città quello che si tramanda da generazioni è la cattiva sorte toccata a Delia ma sopratutto ai suoi abitanti. Infatti in seguito ad un incursione e alla successiva distruzione della città gli abitanti scapparono verso le montagne dove alcuni si fermarono nella Città di Bova “Chora tu Vua” (alcuni studiosi pensano sia stata fondata proprio da questi), altri ancora a Roghudi e Chorio di Roghudi (piccoli centro montani oggi del tutto abbandonati), mentre gli altri ancora superando le montagne si stanziarono sul versante tirrenico formando il villaggio dal nome PARACHORIO (cioè Paese vicino) vicino al già esistente PEDAVOLI.

“...una porzione (di quegli abitanti) volendo quasi nascondersi al commercio degli uomini passò tutte le Montagne, ed in luogo, ove ancora pochissima gente vi era andata, formò un’abitazione, nomandola col termine greco Perachorio, cioè Paese di là dalle Montagne; ivi abitando posero gli stessi nomi alle loro contrade, che attualmente sono nella Marina di Bova, e tali fin’oggi si mantengono, anzi in una fontana (fontana di S. Elia) si vede un’iscrizione, ove diceva: NOS GENS DELIA, il che ci fa comprendere essere stati quei popoli abitatori di quella contrada, situata nella Marina di Bova, che tocca il lido di Spartivento, e chiamata fin’oggi Delia, per essere stata fondata da una colonia di Greci venuti dall’isola di Delo... Questo paese, Peracorio, 30 miglia lontano da Bova nella Diocesi di Oppido, è soggetto nel temporale al Conte di Sinopoli.

I suoi abitanti, per essere stati bovesi, in ogni bisogno di Bova prontamente correvano armati ad aiutarli, cosicchè da allora restò in uso di venire nella festa principale di San Leo in Bova una gran compagnia di essi, armati con tamburi e bandiere e con terribili scariche di schioppi a onorare la festa. I cittadini di Bova vicendevolmente, nella festa principale di Peracorio, colla guida di alcuni principali della Città armati di picca militare, sogliono sin’oggi andare armati colle proprie bandiere, e tamburi, e festeggiar quel giorno, colla differenza però, che quei di Peracorio, per antica convenzione devono venire due anni in Bova e poi li Bovesi uno solamente.”  (Alagna D. - 1775)



E vi è di più. Sul campanile della chiesa patronale di Paracorio, abbattuto anche quello dal terremoto del 1783, esisteva una iscrizione lapidaria, il cui contenuto per fortuna non andò disperso e che vale a ribadire ancora una volta la esistenza di Delia e la emigrazione dei Deliesi a Bova e a Parachorio.

Eccola:

D. O. M.

"ILLUSTRIS AC RMUS D.D. LEO - LUCAS VITA PATRITIUS MONTIS - LEONIS DEI ET APLICAE SEDIS GRATIA EPUS OPPIDEN - SEVIENTIBUS BARBARIS IN CALABRIAM AC VASTATA PRAENOBILI URBE DELIA INCOLAE HUIUS PLURIMI BOVEN CIVITATEM COSTRUXERUNT. ALII HUC USQ: PERVENERUT AC AEDEM HANC SACRAM SUB TITULO ASSUMPTIONIS B. MARIAE VIRG. EREXERUT. QUAM LABENTE AEVO APLIATAM POSITIS RELIQUIIS S.S. MARTIRUM HONESTI ET AUSTERI IN ARA MAJORI. ANNO D. MDCCXXXV VI. KAL MAJI MULTARUM ET FINITIMIS PARTIBUS GENTIUM ATQ. HUIUS PARACHORIENSIS CLAERI POPULIQ. CONCURSU AC MAGNO LUMINUM APPARATU CONSECRAVIT CUIUS ANNIVERSARIUM DOMINICA POST PASCHA QUOTANNIS CELEBRANDUM STATUIT".

D. O. M.

“Illustrissimo e Reverendissimo Leone Luca, patrizio nato a Monteleone e per grazia di Dio e della Sede Apostolica Vescovo di Oppido. Quando i barbari infierivano nella Calabria, dopo aver distrutta la nobilissima città di Delia moltissimi suoi abitanti costruirono la città di Bova. Altri raggiunsero questi luoghi, edificarono un tempio dedicato a Maria Vergine Assunta. Con il trascorrere del tempo il tempio fu ingrandito e il 26.4.1735 vennero poste, sotto l'altare maggiore, le reliquie dei santi martiri Onesto ed Austero. Numerosa fu l'affluenza della gente venuta dai paesi vicini con il popolo e il clero di Parachorio. Grande l'apparato di luci. Fu stabilito che ogni anno l'anniversario fosse celebrato nella seconda domenica di Pasqua.”




 


 

Quindi si ipotizza l’origine ionica di Parachorio e tirrenica di Pedavoli.

 I due centri il 27 gennaio 1878 per volontà di Re Umberto I°,  si unificarono ufficialmente dando origine a  Delianuova.

Fin allo metà secolo XIX infatti in occasione della festa solenne di San Leo a Bova gli abitanti e i rappresentanti di Parachorio raggiungevano Bova  e lo stesso avveniva per la festa di S. Domenica a Parachorio, inoltre in occasione della posa della statua della Madonna del Mare sul Promontorio di San Giovanni D’Avalos il comune di Bova Marina ha  donato una copia in gesso al comune di Delianuova.I Comuni di Bova (in seguito anche Bova Marina) e Delianuova volendo rafforzare il legame tra le due comunità realizzarono un gemellaggio.

E’ emozionante pensare alla grandezza e all'importanza di

questa antica città di cui ancora oggi si hanno dubbi

sull’esistenza.



Pasquale Callea




 tratto da PORPATIMA TREKKING.

giovedì 11 novembre 2021

MATRIMONIO DELIESE.





martedì 2 novembre 2021

DELIANUOVA. COMMEMORAZIONE DEI DEFUNTI.


 "...E intanto passa e in folla va la gente a lagrimar sulle tombe fiorite..."

(Da "In novembre " di Felice Soffrè)




Cimitero di Delianuova

martedì 26 ottobre 2021

NDRANGHETA E CHIESA IN CALABRIA.


‘Ndrangheta e Chiesa: un oscuro legame per controllare i territori

La recente condanna di don Pino Strangio nel processo Gotha è solo l'ultimo di una lunga serie di episodi che documentano i rapporti tra 'ndrine, massoneria e istituzioni ecclesiastiche in Calabria. Un patto di sangue e potere che la scomunica di Papa Francesco non sembra aver intaccato.



INCHIESTE .


di  Claudio Cordova .




La processione della Madonna a Polsi.


«In qualità di sacerdote e massimo referente religioso del santuario della Madonna della Montagna in Polsi, grazie all’autorevolezza derivante dai suddetti ruoli, mediava nelle relazioni tra esponenti delle forze dell’ordine, della sicurezza pubblica ed esponenti di rango della ‘ndrangheta. In funzione di garante delle promesse e di agevolatore dello scambio tra le informazioni gradite ai primi e varie forme di agevolazione gradite ai secondi, in maniera che l’azione di contrasto dello Stato si nutrisse di apparenti successi, dietro ai quali nulla mutasse nelle reali dinamiche di potere interne alla ‘ndrangheta ed in quelle correnti tra quest’ultima e le altre strutture di potere, riconosciute e non riconosciute».

Un ruolo di raccordo. Di collante tra mondi diversi quello che avrebbe rivestito don Pino Strangio. È questa una parte del capo d’imputazione per il quale il sacerdote, pochi giorni fa, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi per concorso esterno in associazione mafiosa nell’ambito del maxiprocesso “Gotha”, celebrato contro ‘ndrangheta, massoneria e politica.

‘Ndrangheta e religione

La condanna di don Pino Strangio, per anni rettore del Santuario di Polsi, è l’ennesima tappa di un pericoloso percorso che ha visto, negli anni, le strade di ‘ndrangheta e religione incrociarsi pericolosamente. «La condanna penale in primo grado di un sacerdote della diocesi suscita dentro di me sentimenti diversi. Pur non conoscendo ancora le motivazioni della sentenza, da una parte sono profondamente addolorato per la gravità delle accuse che hanno portato alla determinazione del Collegio penale e dall’altra ho molta fiducia nell’operato della Magistratura. Mi propongo d’incontrare il sacerdote appena possibile, per un’approfondita valutazione della sua vicenda giudiziale nel contesto pastorale ed ecclesiale». Così, il vescovo di Locri-Gerace, monsignor Francesco Oliva, ha commentato la condanna di don Pino Strangio.

Da sempre, la ‘Ndrangheta ruba simboli, ruba credenze, ruba riti. Tutto è funzionale a creare una identità culturale. Qualcosa che possa creare proselitismo e senso di appartenenza. Soprattutto presso i più giovani. Ma tutto è funzionale anche a mantenere quel controllo del territorio, senza il quale le cosche non riuscirebbero a condizionare la vita politica, economica e sociale dei luoghi e delle comunità.

Solo per fare un esempio, l’importanza delle feste religiose nei paesi calabresi. Lì, molto spesso, un ruolo fondamentale nell’organizzazione degli eventi, così come nelle processioni, è rivestito dalla ‘ndrangheta. Da Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria, alla “Affruntata” di Sant’Onofrio, nel Vibonese. Noti, molto noti, gli esempi degli “inchini” delle immagini della Madonna davanti alle case dei boss ai domiciliari. E altrettanto documentati i sequestri di materiale sacro, dai vangeli alle bibbie, passando per le immaginette sacre, che spesso vengono rinvenute nei bunker dei grandi latitanti.

In tal senso, riveste un ruolo fondamentale in seno alla ‘ndrangheta il culto per la Madonna della Montagna. Proprio lì, a Polsi, dove don Pino Strangio era rettore del Santuario. Don Pino Strangio, sempre secondo il campo d’imputazione per cui è stato condannato in primo grado, avrebbe rafforzato «la capacità dell’organizzazione criminale di controllare il territorio, l’economia e la politica ed amplificando la percezione sociale della sua capacità d’intimidazione, generatrice di assoggettamento e omertà diffusi».

Da diversi collaboratori di giustizia e nell’ottica della magistratura, don Pino Strangio è considerato l’erede di un altro prete assai controverso. Per qualcuno un mafioso, per altri un martire. Prete ad Africo, roccaforte della ‘ndrangheta dell’area jonica. Da sempre la figura di don Giovanni Stilo divide. Il suo nome è legato anche alla figura di Antonino Salomone, uomo di rango di Cosa Nostra. Il prete avrebbe favorito la sua latitanza.

Colluso o martire? Don Giovanni Stilo

Una circostanza raccontata per primo dal collaboratore di giustizia Giacomo Lauro: «Salomone proveniva dal Brasile e doveva incontrarsi a Parigi con un suo nipote, Alfredo Bono, da me conosciuto nel 1978-79. Il nipote avrebbe dovuto accompagnarlo a Palermo per discutere su di un impegno che Salomone aveva assunto ma che non aveva mantenuto. Salomone pero non passò da Parigi, ma entrò in Italia attraverso la Germania. E quindi comparve ad Africo, dove rimase per oltre un mese, ospite di don Giovanni Stilo, in una casa adiacente all’istituto Serena Juventus. So che qualche tempo prima, precisamente dopo il 1981, anche Salvatore Riina fu presente in Africo, cosi come lo fu a San Luca. Nel periodo in cui si trovava ad Africo indossava abito da prete».

Proprio grazie all’istituto Serena Juventus e ai suoi rapporti con la politica e, in generale, il potere, don Stilo avrebbe accresciuto il proprio potere. Anche di natura clientelare. Il fratello sarà anche sindaco. Ovviamente nelle file della Democrazia Cristiana.

Di don Stilo parla anche il collaboratore di giustizia Filippo Barreca, che definisce «notoria» l’appartenenza del prete di Africo alla massoneria: «Don Stilo si riforniva ogni volta che passava dal distributore di carburante da me gestito a Pellaro e l’avevo conosciuto negli anni Settanta quando dovevo raccomandare una ragazza […] che doveva sostenere esami presso la sua scuola di Africo. Per cui andai da don Stilo assieme a “Peppe Tiradritto” e cioè Giuseppe Morabito. Devo però aggiungere che anche l’ex onorevole Piero Battaglia, allora consigliere comunale, l’aveva raccomandata al medesimo don Stilo. L’intero paese di Africo fu costruito grazie ai rapporti di don Stilo con l’onorevole Fanfani».

Secondo Barreca, don Stilo avrebbe avuto importanti relazioni sia all’interno dell’ospedale di Locri, sia soprattutto all’interno dell’Università di Messina. Lì dove riusciranno a laurearsi decine di rampolli di ‘ndrangheta, diventando di fatto classe dirigente.  Legami che, comunque, passerebbero sempre dalla comune appartenenza massonica: «Ci fu un periodo in cui l’Università di Messina era una sorta di dependance di Africo Nuovo, nel senso che vi comandavano don Stilo e i suoi accoliti».

Don Stilo viene anche arrestato e processato con l’accusa di connivenza con la ‘ndrangheta e, in particolare, con le cosche Ruga, Musitano e Aquino. A pesare sul prete erano intercettazioni telefoniche e dichiarazioni di collaboratori di giustizia. Il prete di Africo era accusato di aver presenziato ad alcuni summit mafiosi, cosi come disse il pentito Franco Brunero. Ma, soprattutto, di aver aiutato nella latitanza il boss di San Giuseppe Jato, Antonio Salomone, cugino di Salvatore Greco, detto “Totò l’ingegnere”, uno dei capibastone di Ciaculli. Il Tribunale di Locri, nel luglio del 1986, condannò Don Stilo a cinque anni di carcere. La Corte d’Appello di Reggio Calabria confermò la condanna nei suoi confronti. Ma la Corte di Cassazione, presieduta da Corrado Carnevale (il giudice passato alla storia come “ammazzasentenze”), rimise tutto in discussione. Nuovo processo di secondo grado a Catanzaro. Don Stilo, nel giugno del 1989, fu assolto da ogni accusa.

Oggi collaboratore, ma prima medico, uomo in contatto con le cosche della Piana di Gioia Tauro e anche massone. Il dottor Marcello Fondacaro riversa le proprie conoscenze sul mondo della masso-‘ndrangheta ai pm della Dda di Reggio Calabria. Fondacaro parla dei rapporti tra le logge di Reggio Calabria e quelle di Trapani. Due aree, il Reggino e il Trapanese, tra le più povere d’Italia, ma anche le più gravide di massoni: «Don Stilo lasciò la sua eredità a Don Strangio di San Luca. La sua eredità intesa eredità di rapporti, di rapporti politici, di rapporti massonici».

Il bubbone ‘ndrangheta nella Chiesa

Dal passato a oggi, la funzione dei sacerdoti, quindi, ha rivestito sempre un’importanza vitale negli equilibri. Soprattutto nei piccoli centri. E, purtroppo, talvolta parliamo di equilibri di ‘ndrangheta. Don Pino Strangio, infatti, avrebbe avuto anche un ruolo nei rapporti tra Stato e ‘ndrangheta nel periodo successivo alla strage di Duisburg, avvenuta il 15 agosto del 2007.

Le ingerenze delle cosche a Polsi, a Sant’Onofrio o in altri luoghi sparsi su tutto il territorio calabrese sono solo punte più visibili e affilate di un iceberg. Che è molto più grande. Che comprende un controllo capillare, sistematico, da parte delle ‘ndrine sulle celebrazioni sacre. Un controllo messo in atto con la stessa cura e precisione con cui si controllano gli appalti. Con essi si accumulano ricchezze. Con il controllo sociale delle masse, invece, si conquista e si mantiene il potere.

Non è un caso. Non può essere un caso che alcune tra le cariche e le strutture più importanti della ‘ndrangheta abbiano richiami di natura massonica e religiosa. Dal Vangelo alla Santa. Passando per San Michele Arcangelo. Che, curiosamente, è sia patrono della Polizia, sia della ‘ndrangheta. E, ovviamente, il ruolo rivestito dal Santuario della Madonna della Montagna a Polsi, che per anni ha visto insozzata le propria funzione religiosa e spirituale da riunioni e summit di ‘ndrangheta.

È il 21 giugno del 2014 quando Papa Francesco, nella Piana di Sibari a Cassano allo Ionio, lancia la scomunica ad ogni forma di criminalità organizzata. Volutamente il Pontefice ha scelto la Calabria.  La regione, forse, dove la Chiesa ha fatto meno contro la ‘ndrangheta. Soprattutto se si pensa ai preti martire, come don Pino Puglisi, in Sicilia. O don Peppe Diana, in Campania.

«I mafiosi non sono in comunione con Dio» disse Papa Francesco. Da quel giorno, nulla o quasi è cambiato. Una parte della Chiesa continua a essere timida sulla lotta alla ‘ndrangheta. E non sono inusuali i collegamenti, talvolta solo relazionali, ma altre volte anche di natura criminale, tra le tonache e il mondo delle ‘ndrine. All’inizio del 2021, due preti del Vibonese sono stati anche rinviati a giudizio per tentata estorsione aggravata dalle modalità mafiose.

da " I CALABRESI"  del 6 agosto 2021.